Dialogando con Roberto Moro (Padova 1988)
“Senso e Significazione nell’esecuzione musicale”
Dialogando con Roberto Moro (Padova 1988)
Affrontare la questione del “Senso e Significazione nell’esecuzione musicale”, non vuol dire imparare e/o insegnare dei “trucchi” per andare oltre ciò che si trova stampato su una partitura: in realtà ciò che decide se questo tentativo di andare “oltre” avrà successo o meno è la posizione soggettiva, il tipo di approccio che viene messo in atto nei confronti della partitura stessa: si tratta di usare dei segni (ciò che è stampato) per evocare quelle che per ora chiamiamo “energie latenti”, energie sepolte dentro di noi.
Si può considerare che la musica è l’impressione del “ritmo pulsante” presente nel corpo del compositore e che rievocando il ritmo che si trova dentro di noi trova corrispondenza nel corpo di chi l’esegue e di chi l’ascolta (ricordiamo che i ritmi biologici di un individuo non sono completamente differenti da quelli di un altro).
La fonte ritmica cui il musicista attinge è il “corpo”, sono ritmi vitali: involontari: pulsazione cardiaca, la digestione, l’assimilazione (la secrezione di ormoni ed enzimi) la pulsazione del liquor nel cervello e nel midollo spinale; semi involontaria: mangiare, respirare, dormire, l’universo sonoro nel quale il feto è immerso è straordinariamente ricco di frequenze di tutti i tipi.
Essa può variare a seconda del grado di “eccitazione” del movimento molecolare dei tessuti organici: questo stato di eccitazione è legato: lavoro, gioco, danza, canto, alla stato emotivo, piacere, fame, amore, gioia ecc.
Per chi, come noi, si occupa di vocalità la questione del ritmo è inseparabile da quella della parola. Anzi, nelle lingue antiche ritmo, parola e melodia costituivano un “insieme” indivisibile, ma oggi, noi, come ci poniamo di fronte a un testo da cantare? Certo, ad una semplice lettura ad alta voce, non cantando, il testo evidenzia un suo ritmo, una sua successione di accenti della musica. Ma gli accenti delle parole (ad cantus < accentus) sono la musica presente nel nostro parlare; quando parliamo, cantiamo anche un pò e non è solo questione di inflessioni dialettali o regionali.
Allora il compito dell’interprete non è semplicemente quello (come si legge nei manuali) di fare andare d’accordo la “musica della parola” con gli accenti musicali che la sorreggono; in realtà perché ci sia un passaggio alla dimensione del senso musicale, occorre trovare un elemento “terzo” rispetto ai primi due (il testo da cantare e la musica che lo accompagna) un elemento che ne sia la sintesi ma non la semplice somma, un elemento, che va in qualche modo inventato, evocato, scovato con la tenacia e il gusto del rabdomante.
In questa invenzione le consonanti hanno un ruolo cruciale. Con-sonanti decidono dell’effetto della vocale che segue o precede (consonanti: emisfero sinistro, vocali: emisfero destro). L’articolazione del testo parlato secondo la suddivisione ritmica proposta dalla musica.
Cogliere le linee energiche farle deviare da un moto interiore, svilupparle e trovare il punto o i punti di scarico quando la parola è “incendiata” dal ritmo ( e non necessariamente deve essere cantato) diventa un’altra cosa; ma perchè il ritmo possa incendiarla deve già essere – almeno un pò – un’altra cosa.
Se ora affrontiamo brevemente la questione del suono, supporto “materiale” del far musica, che i paramenti usuali che lo definiscono con altezza, intensità, timbro, durata, non ci sono d’aiuto nel tentativo di far emergere qualcosa che vada oltre la pura significazione; o meglio questi 4 paramenti che sono famigliari a tutte le persone che si occupano di musica vanno considerate da un punto di vista “diverso”.
In effetti, è possibile distinguere tre modi di considerare il suono:
1) Vi è l’approccio “fisiologico materiale”. E’ quello, per intendere, dello studioso di acustica oppure, se si tratta di una voce, del foniatra o del logopedista. Il suo suono viene valutato, considerando, tenendo in primo piano la sua “materialità” più bruta, le modalità della sua produzione secondo le leggi della Fisica.
Approccio per così dire Scientifico.
2) Vi è l’approccio “fisiologico ideale” qui che prende in considerazione il suono da esaminare lo fa confrontandolo con un modello estetico precostituito, con un modello di suono “ideale” che è il frutto di una convenzione, di una moda di una scuola di pensiero, di una corrente artistica.
Il musicista che si muove su questo terreno ha alcune, forse poche, garanzie:
- a) la garanzia se tutto va bene, di un prodotto dignitoso, decoroso
- b) La garanzia di muoversi nell’ “ortodossia”, nel “comunemente accettato”.
D’altra parte, per quanto prestigioso, determina
- a) la necessità di un controllo ferreo, di un atto di volizione consapevole che “sorveglia” costantemente l’evento musicale e ne corregge/censura immediatamente (ma sempre in ritardo …….) gli scarti e le deviazioni dal modello. In altri termini, questo controllo ferreo è un illusione perché prima o poi va incontro a inevitabile defaillances, ma soprattutto perché esaurisce lo sforzo dell’evento – suono in quella che è stata chiamata “volontà di prestazione “
- b) la limitazione del suono alla esigenze della musica è una operazione di puro “buon senso”. Sfortunatamente ciò limita anche il suono nel suo sviluppo, anzi nel suo auto sviluppo, che il suono presente, a certe condizioni, una capacità di sviluppo per cosa dire autonoma Resta il fatto che, finchè ci si muove nell’ottica di adeguarsi ad un modello “ideale” precostituito, e questo accade nella grande maggioranza delle occasioni cosidette musicali, è quasi impossibile uscire dalla dimensione della significazione, è quasi impossibile un “salto di qualità”, quel colpo d’ala che segnala l’accesso alla dimensione del suono.
3) Vi è, per finire, un approccio che è stato definito fisiologico-spirituale. Spirituale è un termine che suscita qualche imbarazzo, ma che in prima approssimazione possiamo leggere antitetico alle considerazioni “materiali” di punti 1 – 2.
In altri termini questo approccio descrive le considerazioni in base alle quali è possibile che il suono assume caratteristiche tali da porsi per chi lo produce e per chi lo ascolta (fruisce) al limite fra materiale e l’immateriale; caratteristiche tali da renderlo un mezzo che dilata le coordinate spazio – temporali in cui ci muoviamo di norma.
Il suono si può definire punto di incrocio fra fenomeni filosofici e fisiologici (senso) psicologici e spirituali
Ritmo – Parola – Musica
La prima, e forse la più importante, è il RITMO non si tratta del ritmo metronomico, il ritmo del metronomo è in ritmo ritmo imbalsamato, cristallizzato, “esatto”. Andare “esattamente col metronomo” significa porsi fuori dalla dimensione del senso musicale, significa fare del banale solfeggio. In realtà, come è stato detto, il ritmo è il ritardo sul tic-tac del metronomo; il ritardo e anche l’anticipo, si dovrebbe aggiungere.
Tutto il dramma, il divertimento, il rischio, l’avventura del ritmo stanno proprio in quello scarto in quella differenza fra tic-tac meccanicamente prodotto e la “pulsazione” ritmica propriamente detta.
L’embrione comincia ,a sentire già dal 4° mese di gestione i rumori viscerali della madre (quelli della gestione) della respirazione, i suoi battiti cardiaci. Tutti questi rumori sono associati e sono i ritmi primitivi che si imprimono in noi per tutta la nostra esistenza.
Questa ritmicità è impressa in tutte le nostre attività involontarie, semi involontarie e persino quelle volontarie.
Il lavoro dell’interprete si attua su questo sfondo leggermente contradditorio. Eisenstein.
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